
Presentazione di Patrizia Agnorelli
La rassegna “Donna 2017” presenta un’esposizione nella quale le discipline artistiche si arricchiscono, oltre che della pittura e della scultura anche della fotografia.
Quest’anno in particolare avrei voluto dialogare con gli artisti direttamente, come fanno le loro opere con il pubblico e per tale motivo ho cercato, nel possibile, le loro frasi, qua e là sparse nei cataloghi di altre rassegne o interviste.
Leggo dalla biografia di Diana Polo, qui presente con cinque sculture, ma versatile nei più diversi mezzi dalla pittura alla grafica, che “per quanto piccoli ed insignificante, ogni evento, ogni incontro, ogni emozione che viviamo nel quotidiano lasciano una traccia dentro di noi […] linee, colori, ombre e luci si sviluppano […] in completa libertà. Poco importa che l’opera risulti inquietante, se è questo il sentimento che l’ha generata…”. Non c’è inquietudine manifesta nei volti delle donne che Diana Polo ha plasmato nella raffinata argilla bianca, ma il loro sguardo appare pensoso, le ciglia aggrottate, le espressioni sembrano tese in uno sforzo o un momento di passaggio che stanno attuando o appena attuato. Libera dal piumaggio erto che si è appena sciolta da sbarre che l’hanno profondamente condizionata, che non riesce probabilmente a vivere ancora appieno l’acquisita via di salvezza, o La donna con le rose, unica scultura tra le presenti, dove l’argilla è colorata nelle tenui cromie, la cui completezza non è però raggiunta dalla mancanza del volto, nonostante la raffinatezza delle forme, o ancora Voglia di essere farfalla, dove il finimento metallico ad indicare le ali, che forse vorrebbe, ma che non sente di possedere appieno, la rendono ancor più leggera e aggraziata come un ricamo dalla consistenza non volumetrica.
La pittura, apparentemente realistica, se non addirittura iper-realistica di Anna Morandi è in realtà tutta da leggere e interpretare. La biografia della pittrice parla di una metamorfosi, di una trasformazione che, da una formalità surrealista difficile da recepire per il pubblico, sceglie un messaggio rappresentativo immediato, “passando dalla carezza allo schiaffo”. Un ossimoro apparentemente perché ciò che è più comprensibile dovrebbe accarezzare e non percuotere. In realtà i suoi primi piani, precisi nel disegno, formalmente riconoscibili fin da subito, sono interpretati in modo quasi onirico. Il fondo ha un colore neutro lo stesso quasi, dei volti, attraversati da schizzi di colore e soprattutto visibili come dietro un filtro trasparente. Quei volti femminili così evidenti sono in realtà inarrivabili: tra noi e loro c’è un appena percepibile velo che non rende poi così facile la lettura e l’autentica natura della donna, molto più indefinibile di quanto si creda.
Anche l’arte, assume nella tecnica sfaccettature che obbligano a coniare neologismi artistici, così come ha fatto Enrico Paolucci che presenta in mostra quattro “pittosculture” o “sculture dipinte”: l’unione di pittura e scultura che si fondono insieme a creare un’unica opera, dove la componente figurativa è data dall’aggetto plastico dei profili. Un fare legato a un primitivismo nelle forme, attraverso una grafia che differenzia le figure autonome e indipendenti per tratto, volume, inserite in sezioni che isolano dei riquadri, quasi fossero quadri nel quadro. Il paese con la figura stante di uomo, con quella femminile che si abbraccia un ginocchio. Figure di cartapesta lavorata che simulano la pietra quando non sono rivestite di patina dorata. Così Circe è al centro delle sue vittime trasformate in gioiosi colori, quasi smalti che ricordano l’effetto luminoso della terra di Val d’Orcia armoniosa ed elegante nella sua naturalezza.
La linea realistica e figurativa è l’espressione immediatamente riconoscibile nelle opere di Sergio Manzi. Il confine tra tradizione e modernità risulta ogni volta labile. Forme morbide, ma dai tratti quasi geometrici, come nella donna sofferente o nel Mezzo busto in argento, dove le tondeggianti forme che caratterizzano il fondo e il volto femminile creano un senso di concreta astrazione. Gli elementi cromatici a campiture uniformi sono delineati da un segno incisivo, netto e allo stesso tempo espressivo. Il segno, parte fondamentale dell’opera di Manzi, non subordina il colore, ma lo accompagna, come nelle diverse tonalità di azzurro del Profilo etrusco.
La lezione di Sergio Manzi, torna omaggiata da Alessandro Andreuccetti nelle ultime opere realizzate. L’acquerello, tecnica consueta, è quella di IMAICAB/BACIAMI, dove il titolo bifronte anticipa i due volti che capovolti stanno per sfiorarsi. Della propria gestazione artistica Andreuccetti scrive: “Ogni dipinto ha una sua storia e una sua personale gestazione. Tutto può contribuire alla scintilla iniziale, una foto, una frase, una musica. Prima di iniziare passo molto tempo pensando al design generale della nuova tavola, agli schemi di colori da utilizzare, a cosa mettere in evidenza e cosa lasciare in secondo piano. Generalmente prendo molti appunti, faccio schizzi, provo dei colori, ombreggiature, scompongo il soggetto in porzioni che poi ricompongo diversamente, schematizzo varie soluzioni compositive. Tutto questo processo può durare giorni oppure settimane però quando è il momento di dipingere il lavoro viene giù filato senza ripensamenti”. E senza ripensamenti sembra voltarsi di scatto Margherita, dai tratti netti sottolineati da un'ombra verdastra che ne accentuano la forza espressiva e la passione che trasmette.
La passione, rossa come il sangue, è ciò che letteralmente sembra fluttuare sulle tele di Susi La Rosa, attraversate da pennellate vorticose che riproducono l’elemento insito nel suo carattere e nelle sue origini siciliane: il mare. Scrive di sé: “Nascendo in luogo di Mare per me l'arte che riesco ad esprimere ne fa sempre riferimento, Lui da rispettare e temere, che sia un quadro figurativo od informale, sempre in Lui mi rifugio e ne traggo ispirazione. Nelle onde del Mare di Sicilia ricche di storia antica, di vita e di speranza trovo la giusta forza per sperimentare e crescere. Un amore forte e sanguigno a Lui mi lega e ovunque io sia lo porto con me. Ecco il perché delle mie onde rosse e bianche, dei miei monocromi, non ci sono vie di mezzo o si ama o non si ama”. Il mare, ma anche il suo ambiente, ovvero la sabbia. Le sue opere producono una sensazione tattile. In un succedersi di vuoti e pieni, i piccoli frammenti di specchio, sapientemente nascosti che restituiscono improvvisi guizzi di luce.
La luce colta dalla macchina fotografica è ciò che differenzia la narrazione delle dieci foto di Duccio Manzi che come in un reportage inquadra dieci momenti di una donna-bambola. Dall’Infanzia alla Morte il soggetto inanimato con gli occhi sbarrati e inquietanti (tranne che nell’ultima immagine) si circonda di attributi che ne qualificano il momento che vive, o che meglio ancora subisce, dato che “non cambia in ogni istante della sua vita”. Il taglio obliquo della luce crea l’effetto straniante del soggetto, come nello scatto dal titolo Noia, dove il volto della bambola è visibile solo per metà, avvolto per l’altra parte da un pesante fondo cinereo che assorbe totalmente i tratti.
Luoghi diversi e soggetti vivi sono quelli che immortala la macchina fotografica di Cristina Garzone, presente in mostra con cinque delle foto realizzate nella valle dell’Omo River in Etiopia. “Quello che mi è sempre piaciuto ritrarre con i miei scatti sono le persone, che si trovano nel loro ambiente dove vivono, lavorano, studiano, pregano etc., per riuscire in questo, ho bisogno di avvicinarmi con pazienza ed umiltà e provare a stabile un rapporto amichevole con i soggetti, farli sentire sempre a loro agio, cercando di catturare la loro migliore espressione, che poi è sempre quella più naturale, nella loro dignità e mai nelle tragedie“ . Ciò che più colpisce in effetti sono le figure che prepotentemente e con decoro emergono da ambienti umili, ma fortemente intrisi di personalità, come i due personaggi nella loro quotidiana e familiare Ora del Caffè. Sguardi fieri come Arisha o movenze eleganti come la Pastorella che col rosso foulard mosso al vento, sembra pronta a una danza a beneficio del cielo.
Le presenze femminili alle quali sono dedicate le opere in mostra sono espresse o suggerite come nelle foto di Duccio Nacci, scattate nel 2013, in occasione della manifestazione “Scarpe rosse contro la violenza sulle donne”. La scalinata della collegiata di San Gimignano negli attimi fermati dal fotografo sono gremite dagli accessori femminili, ordinatamente collocate, tanto da rendere palese la presenza delle donne, più che la loro apparente assenza. Attraversate da una luce bagnata, le scarpe, come fiammelle, brillano dietro l’occhio del fotografo che riesce ad esaltare i pochi colori e, nel riverbero del tramonto, sembra creare un effetto di movimento. Nacci scrive: “Nelle mie immagini cerco di catturare, oltre che la forma delle cose, anche il silenzio in cui è avvolto l’ambiente al momento dello scatto. Un silenzio che non è mai assenza di suoni, ma bisbiglio di elementi che cullano i sensi e gli occhi acquistano la stessa funzione delle orecchie. La mia fotografia è la ricerca della bellezza intesa come piacere estetico ed estatico. Non c’è conflitto dove la bellezza è assoluta, incontestabile, inequivocabile”.
E forse, la via di scampo è tutta qui: nell’equilibrio sinestetico raggiunto da Duccio Nacci; nello sguardo empatico di Cristina Garzone, capace di cogliere l’essenza di una cultura primigenia; nella fissità degli occhi vitrei che Duccio Manzi inquadra come un malcelato bisogno di ascolto; nella partecipazione panica di Susi La Rosa che trasforma l’abbraccio del mare; nell’istante che Alessandro Andreuccetti coglie senza incertezze, né aspettative e per questo pregnante di significato; nell’oro e argento come linea di vita di Sergio Manzi; nella materia “povera” come la cartapesta che Enrico Paolucci trasforma in colore prezioso; nelle trasparenze di Anna Morandi la cui profondità di pensiero va scardinata; nella ricerca di un sogno che Diana Polo nell’argilla accuratamente levigata vuol custodire, a rischio di farlo impigliare nei sottili fili metallici.
Forse la via di scampo è nell’arte e nella bellezza, se, come scrisse Todorov, riprendendo da Dostoevskij, “La bellezza salverà il mondo”.
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